La vicinanza della regione abruzzese con Roma ha senz’altro avuto la sua importanza, nei primi secoli del cristianesimo, nel processo di evangelizzazione avvenuto attraverso quegli assi di penetrazione rappresentati dalle strade romane: vie allo stesso tempo di comunicazione, di commercio materiale e veicolo dei movimenti ideali e spirituali.
Dall’esame delle fonti letterarie, archeologiche e agiografiche, possiamo sicuramente risalire al IV secolo, anche se è lecito ipotizzare una sua diffusione già nel III secolo, prima della pace di Costantino. Alla fine del V secolo troviamo una quindicina di sedi vescovili fra cui quella del monaco Equizio di Amiterno, più volte nominato nelle fonti letterarie. Circa nello stesso periodo, inizia la penetrazione basiliana che durerà fra alti e bassi per diversi secoli, in funzione degli avvenimenti che si verificavano al sud dell’Italia e che determinavano le diverse ondate migratorie. A completare il quadro monastico della regione interverranno infine i monasteri benedettini, che nei secoli successivi assumeranno una importanza preponderante partendo dai loro maggiori centri quali Montecassino, Farfa, Subiaco, S. Vincenzo al Volturno. Ma tale quadro ha breve durata in quanto viene sconvolto dalla invasione longobarda.
In genere le popolazioni, inermi di fronte al nemico, si danno alla fuga, cercando di nascondersi in attesa che il peggio sia passato. Ciò può riuscire più facilmente in quelle regioni dove montagne impervie o piccole isole possono servire allo scopo. È quanto può essere accaduto da noi, favorendo in seguito, in virtù di una popolazione rimasta abbastanza integra, una più rapida ripresa sia della vita normale che di quella monastica. Tuttavia quel ritiro sui monti per gli insediamenti monastici può non essere stato solo un fatto momentaneo, poiché univa, alla relativa sicurezza, un ambiente adatto alla vita spirituale.
A ciò si aggiungano il potere di attrazione che Roma esercitava sul mondo cattolico e l’impossibilità, per il pellegrino, di potervi condurre vita ascetica: quasi naturalmente i suoi passi si dirigevano verso le montagne abruzzesi, dando vita ad una piccola ma continua migrazione che le ha popolate di eremi e monasteri. E tutto ciò è avvenuto nonostante che in essa non sia nato un movimento eremitico come quello camaldolese al centro-nord o di San Nilo al sud. Bisogna attendere il XIII secolo per registrare con i Celestini un movimento di origine locale, tra l’altro favorito da un terreno particolarmente fertile e pronto ad accoglierlo.
Riguardo ai movimenti dei monaci italo-greci che risalivano la penisola fino ad insediarsi sulle nostre montagne, va notato che con la cultura rupestre di Sicilia, Calabria, Basilicata e Puglia i nostri luoghi hanno poco in comune, per non dire nulla. La evidente differenza numerica dei due fenomeni dipende anche dal fatto che nel nostro caso abbiamo a che fare con luoghi, siano eremi, chiese o santuari, destinati esclusivamente al culto. Non possiamo dire la stessa cosa per i numerosissimi ipogei e cripte dell’Italia meridionale.
In contrapposizione a vecchie teorie, oggi si considera la maggior parte di tali complessi come nuclei abitativi, spesso precedenti all’insediamento monastico. E le stesse chiese vanno ritenute come parrocchiali piuttosto che chiese monastiche, realizzate secondo la cultura del luogo: ad abitazioni ipogee era logico affiancare luoghi di culto ipogei, anche se ispirati da schemi costruttivi di chiese sub divo. Ciò fu possibile in quanto la calcarenite offriva facilità di scavo e garanzie di stabilità, permettendo di realizzare i normali schemi architettonici nell’habitat rupestre.
Nella migrazione nel vicino Salento i monaci trovarono una cultura non molto dissimile da quella abbandonata, integrandosi subito in essa. I motivi originari che hanno portato a tale architettura rurale sono molteplici. Innanzitutto il fattore ambientale. Il tufo friabile delle gravine si prestava magnificamente allo scavo. Poi c’è il fattore economico. La realizzazione di una abitazione di questo tipo comporta senz’altro un minor impegno economico. Ed infine, ma non ultimi in ordine di importanza, i motivi storici quali le guerre e le invasioni. Questi piccoli agglomerati garantivano una sicura mimetizzazione nel territorio ed erano poco soggetti ad essere distrutti. Pertanto, se una parte della cultura bizantina è giunta fino a noi tramite gli sporadici e sparuti gruppetti eremitici, essa non ha comunque trovato le condizioni ambientali per ricreare l’architettura delle zone di origine.
Se esaminiamo in particolare i nostri luoghi di culto, fatta eccezione per i pochi romitori abbinati a chiese rurali tipo S. Antonio di Pescocostanzo, S. Giovanni di Bocca di Valle, ecc., tutti gli altri si appoggiano a grotte o a ripari più o meno ampi, chiusi completamente o in parte. I volumi ottenuti tramite scavo sono spesso irrilevanti rispetto a quelli totali, trattandosi molto spesso solo di leggeri adattamenti, di eliminazioni di sporgenze fastidiose o di realizzazioni di scale. D’altra parte sarebbe stato assurdo uno scavo ex novo, visti il notevole numero di ripari che hanno le nostre valli e soprattutto la durezza del calcare. L’esempio più cospicuo di scavo ci è fornito dalla parte superiore di S. Giovanni d’Orfento:
ma, anche in questo caso, non sappiamo in che misura eventuali cavità preesistenti abbiano agevolato il lavoro. Negli altri casi, se la costruzione non sorge completamente in grotta, eliminando così la necessità del tetto, il muro di valle veniva collegato alla parete tramite un semplice tetto ad una falda. Sono visibili, ovunque, i buchi dei pali di sostegno. In questo caso, mi sembra superfluo parlare di stili, visto che ci si è dovuti adattare alla montagna, con le rare eccezioni rappresentate dall’accenno di navate in S. Angelo in Vetuli e dalla zona absidale di S. Angelo di Palombaro. Una ricchezza insolita si nota invece nel S. Michele di Pescocostanzo, sia negli ingressi, sia nelle parti interne dove si usarono gli stessi marmi intarsiati adoperati per le chiese del paese. Ma si tratta di restauri fatti dal XVI secolo in poi. Pur presentando la maggior parte di questi luoghi una estrema povertà e semplicità, è stato comunque possibile scoprire in alcuni di essi, nonostante le misere condizioni, le rare tracce di intonaco dipinto: questo rivestiva sia la parte muraria sia la parte rocciosa che il lavoro di scalpello aveva reso regolare. Ciò è abbastanza evidente in S. Onofrio all’Orfento, dove si distinguono ancora i motivi floreali su di una base rosso mattone, mentre in molti altri eremi si trovano, sul terreno, pezzi di intonaco dipinto dello stesso tipo di S. Onofrio.
Le uniche chiese che presentano ancora affreschi sulla facciata sono quella di San Bartolomeo e quella di S. Onofrio all’Orfento, quest’ultima in verità con segni ormai illeggibili. È comunque tipica delle nostre chiese rupestri la estrema povertà di affreschi, quasi sicuramente dovuta al clima e alla loro particolare ubicazione che determinavano un abbondante scolo di acqua sulle pareti. Una caratteristica comune ai nostri eremi è appunto la cura nell’incanalare l’acqua tramite tagli e canalette nella roccia. Spesso non c’era la necessità di raccolta per uso, data la vicinanza, nella maggior parte dei casi, di sorgenti, ma solo il bisogno di deviare le acque in modo che non bagnassero e danneggiassero le parti interne. In San Benedetto d’Orfento i canali iniziano addirittura nel riparo situato al di sopra dell’eremo, per evitare infiltrazioni. In San Giovanni d’Orfento il lavoro diventa così raffinato da costituire un impianto idraulico di prim’ordine, con l’evidente intenzione di raccogliere acqua decantata. Nel caso di S. Spirito si realizzò un vero e proprio acquedotto, prendendo l’acqua molto a monte. In altri eremi, infine, troviamo cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, come in S. Maria Scalena e in S. Maria della Ritornata. In questi ultimi anni sono stati condotti scavi archeologici in alcuni luoghi di culto rupestri con scoperte molto interessanti. Ritengo che non dovrebbe essere difficile trovare le prove, nei vari luoghi di culto dedicati a S. Angelo, del legame con il precedente culto di Ercole e quindi l’ininterrotta presenza, in tali luoghi, della società pastorale. La vicinanza di tali dedicazioni ai tratturi, ai pascoli, alle sorgenti, alle grotte ricovero non è casuale, perché esse rappresentano i logici santuari di una società che nelle grotte viveva buona parte dell’anno.
Pietro l'eremita
Pietro da Morrone, dopo la sua morte, ha fatto parlare di sé soprattutto per la sua rinuncia al papato. Forse le interminabili disquisizioni su questo argomento hanno impedito che si indagasse più a fondo sulla sua figura di eremita, sicuramente più complessa di quanto appaia a un primo esame, per cercare di capire quale fosse la sua più intima aspirazione. Le testimonianze sulla sua vita ci presentano un sant’uomo che non desidera altro che pace e solitudine fra le anguste mura della sua celletta, secondo l’ideale eremitico che si rifaceva ai padri del deserto. Sono proverbiali le sue penitenze, le quaresime, le veglie, le migliaia di genuflessioni notturne e gli ispidi cilici che portava sotto il saio.
Ma per uomini di tale levatura era praticamente impossibile passare inosservati e immancabilmente i loro periodi di vita eremitica venivano interrotti dall’accorrere delle genti, attirate dalla fama di santità, o comunque dall’originalità di tali personaggi. Per Pietro tutto ciò è sicuramente accaduto, e numerose sono le testimonianze in merito che ricordano inoltre le sue fughe da un eremo all’altro nella continua ricerca di una maggiore solitudine. Ritengo però che Pietro Angelerio avesse pochi motivi per lagnarsi della “persecuzione” dei devoti, poiché ciò era la logica conseguenza dell’ubicazione dei luoghi che aveva occupato. Fu da parte sua una scelta errata o in realtà egli cercava proprio quei posti per un suo preciso disegno? L’esperienza acquisita nella mia ventennale ricerca, la conoscenza dei numerosi luoghi di culto sperduti sui monti abruzzesi, degli ambienti naturali che li circondano, di alcune figure che li hanno abitati mi fanno propendere per la seconda ipotesi. All’inizio della sua vita di eremita Pietro giunse alle pendici della Porrara, l’antico monte Palleno, ove occupò l’angusto riparo minuziosamente descrittoci dallo Stefaneschi. Questo, pur essendo il suo ritiro più povero e scomodo, si trova in una zona certamente non isolata, frequentata da pastori e contadini e da coloro che attraversano il valico fra la valle dell’Aventino e gli altopiani. Al suo ritorno da Roma, dove si era recato per prendere i voti, dopo un breve soggiorno in S. Giovanni in Venere si diresse alle falde del Morrone, alla ricerca della grotta dove aveva condotto vita eremitica il Beato Flaviano da Fossanova. Questo luogo, dove sorsero la chiesa di S. Maria e in seguito il grande monastero di S. Spirito, si trova, ora come allora, in un ambiente ameno, circondato da acque e campi coltivati, e pertanto abbastanza frequentato. Nel suo trasferimento sulla Majella Pietro si fermò tra i ruderi di un vecchio monastero nella valle di Roccamorice, che avrebbe poi dedicato allo Spirito Santo, e da qui iniziò la sua opera di ricostruzione di altri luoghi sacri abbandonati. Mi sembra inutile ricordare che la valle era continuamente percorsa dai pastori che salivano ai pascoli della Majelletta, e che S. Giorgio e S. Bartolomeo si trovano vicini a Roccamorice. S. Antonino di Campo di Giove, S. Antonio di Rocca Giberti, S. Croce al Morrone, S. Maria in Cryptis ed altri luoghi sacri, visitati spesso dal futuro papa, si trovavano anch’essi in zone facilmente accessibili e frequentate. Lo stesso S. Giovanni d’Orfento, che ad alcuni potrebbe apparire un luogo aspro e difficile da raggiungere, si trova, in effetti, a pochi minuti da un comodo e frequentato sentiero per la montagna: dietro la segnalazione forse di alcuni pastori, i suoi discepoli ritrovarono subito dove Pietro si era rifugiato dopo la sua fuga da S. Bartolomeo. Mi sembra chiaro che Pietro ricercasse di proposito quei luoghi nei quali sarebbe stato possibile un eventuale sviluppo della sua piccola comunità eremitica.
Non si sarebbe mai ritirato nella guglia di Peschioli o nella fessura del Cefalone come S. Franco; difficilmente avrebbe occupato la grotta di Placido al Monte Circolo, o quella di Bonanno nella fossa di Spitino. E questo non perché temesse la durezza di quei luoghi: i suoi periodi di ritiro erano particolarmente rigorosi ovunque egli si trovasse. Si ha piuttosto l’impressione che la semplice cella eremitica fosse per lui troppo stretta. Vi entra e vi esce con estrema naturalezza. Vi si ritira quasi per riprendere forza, raccogliere le energie, in vista di un lavoro che deve portare a termine. La sua grande opera nasce da una precisa volontà di fare (senza essere trascinato da eventi che non riesce a controllare), al servizio di una mente lucida e razionale e, in un secondo tempo, anche dall’amore per coloro che si sono completamente affidati a lui. Fu quest’ultimo il motivo principale per cui, già vecchio, intraprese il lungo viaggio alla volta di Lione. Notevoli dovevano essere le sue capacità organizzative per riuscire a creare in circa cinquanta anni una complessa rete di monasteri, grange ed eremi, a dispetto della sua presunta ignoranza e del suo parlare in volgare. Ritengo che le parole di S. Francesco possano esser particolarmente adatte a questo Santo che ha tanto viaggiato ed operato rimanendo sempre, ovunque si trovasse, soprattutto un eremita: “Il corpo è la cella e l’eremita è l’anima che vi abita dentro”.