La messa a coltura dei terreni della media ed alta
montagna è certamente legata al fenomeno millenario della transumanza: nei
periodi in cui essa ha diminuito la sua pressione sui terreni montani,
registriamo una lenta salita verso le alte quote con la realizzazione di opere
di bonifica dei ripidi e aridi pendii e la nascita di piccoli insediamenti
fissi o a carattere stagionale.
Dopo l’anno mille, con una transumanza che mostrava i primi modesti
segni di ripresa dopo alcuni secoli di profonda crisi, e grazie a condizioni
climatiche favorevoli alle colture in quota, sorsero numerosi piccoli
insediamenti, spesso favoriti dai monasteri che avevano già iniziato
l’occupazione della montagna soprattutto per fini pastorali.
|
Condola |
Nella località “Le Gondole” (1412 m.), in Comune
di S. Stefano di Sessanio (Aq), alcuni imponenti ruderi di origine medioevale
ci testimoniano la razionale organizzazione dei cistercensi del monastero di S.
Maria di Casanova (Pe): tale complesso agro-pastorale era di supporto alla
vicina grancia di S. Maria del Monte (1616 m.) che poteva ospitare ben 7000
capi di bestiame. A quote ancora più elevate, sul piano di Campo Imperatore, si
trova la grancia pastorale dei monaci camaldolesi di S. Nicolò di Fano a Corno
(oltre 1700 m.) che poteva contare sul supporto del vicino eremo-ospizio di S.
Egidio (1700 m.).
|
Grancia di S. Maria del Monte |
|
Grancia di S. Nicolò di Fano a Corno |
Sulla Majella aveva sicuramente una funzione
agro-pastorale il piccolo monastero celestiniano di S. Antonino, in Comune di
Campo di Giove (Aq). Si trova a circa 1400 metri di quota, fra il limite
superiore delle colture e i pascoli del versante meridionale del massiccio. Nel
1285 fu ceduto ai Pulsanesi in cambio di S. Pietro di Vallebona, altra grancia
fondata nel 1140 (Celidonio G., "S. Pietro del Morrone. Celestino V"
, Pescara 1954).
|
S. Antonino di Campo di Giove |
Dobbiamo pertanto constatare che le testimonianze
materiali più rilevanti che ci sono rimaste del periodo medioevale si
riferiscono sia per la pastorizia, sia per l’agricoltura all’opera dei monaci.
A chi frequenta la montagna al di fuori dei soliti
itinerari capita a volte di imbattersi, in una fascia altimetrica che va dai
1000 ai 1600 metri, in misteriosi ruderi in zone isolate e spesso impervie. In
numerosi casi tali resti si riferiscono a piccoli villaggi abbandonati da
parecchi secoli in seguito a molteplici cause. Nei documenti d’archivio di
molti paesi è frequente trovare notizie su antichi villaggi medievali sparsi
nel loro territorio. Palena (Ch) ne contava ben undici alcuni dei quali
arroccati sulle cime dei monti come Pizzi Superiore (Lisciapalazzo-1350 m.),
Pizzi Inferiore (Posta Ciufello-1200 m.) e Forca Palena (Passo della
Forchetta-1400 m.). Nel vicino territorio di Pizzoferrato (Ch) troviamo un
altro interessante esempio nella Rocca d'Albano ed un altro ancora in Comune di
Ateleta, sulle pendici di Monte Secine (Colle delle Vacche-1615 m.).
Sull’Altopiano delle Cinquemiglia (L’Aquila) esistevano diversi piccoli centri
e la chiesa della Madonna del Casale è quanto rimane di uno di questi:
Casalguidoni (1300 m.).
|
Colle delle vacche |
|
|
|
|
|
|
Madonna del Casale |
Nei pressi di Piano Locce, in territorio di
Barisciano (Aq), esistevano altri modesti centri nati per la coltivazione degli
ampi pianori e per lo sfruttamento dei pascoli delle circostanti pendici.
|
Piano Le Locce |
La presenza di questi antichi insediamenti
agro-pastorali e il loro abbandono, avvenuto nella maggior parte dei casi
intorno al XIV-XV secolo, testimoniano un mutamento climatico, che non ha più
permesso lo sfruttamento agricolo dei terreni a tali quote, e la contemporanea
e prepotente espansione della pastorizia. Non è un caso che si sia tornati a
coltivare a queste altezze solo in seguito alla crisi della pastorizia
transumante e alla fine della piccola glaciazione. In precedenza temporanee
crisi del sistema pastorale, causate da epidemie che decimavano gli armenti, e
anni di particolare carestia spingevano naturalmente ad espandere le aree
coltivate salendo verso i monti. Altro fattore determinante per l’abbandono di
questi piccoli centri di montagna dobbiamo attribuirlo ad una forte crisi
demografica causata da carestie ed epidemie di peste che hanno fatto sentire il
loro effetto in tutta Europa.
|
Casale Cappelli in Val Chiarino |
Lo sfruttamento della montagna non era solo una
prerogativa dei monasteri, poiché ricche famiglie, soprattutto di armentari,
costruirono grandi complessi fino a quote elevate. Un esempio evidente lo troviamo
nella Val Chiarino dove appare chiara l'organizzazione agro-pastorale
dell'azienda Cappelli, articolata in una struttura di base, costituita da un
casale, da un molino, dalla chiesetta di S. Martino e da alcuni stazzi,
Vaccareccia, Solagne e Vennacquaro posti a quote diverse ed ognuno con la sua
precisa funzione. Il molino serviva per l’estrazione dell’olio dai semi del
faggio. L’olio veniva utilizzato per l’alimentazione ma soprattutto per
l’illuminazione.
|
S. Maria del Vasto |
Nella vicina Valle del Vasto troviamo un'altra
grande masseria anch'essa appartenuta ai Cappelli. Il complesso è nobilitato
dalla presenza dell'antica chiesa di S. Maria del Vasto che ci ricorda
l'esistenza di un centro abitato. Poco più a valle di questa si vedono i ruderi
del Casale della Jenca e le vicine grotte adibite a rustici: entrambi i
complessi stanno a testimoniare un intenso sfruttamento agricolo e pastorale
della valle.
|
La Castelletta |
La Castelletta di Palena (Ch) è un esempio
abbastanza raro in Abruzzo di
masseria fortificata, costruita forse tenendo presente le belle e
numerose masserie pugliesi. E' evidente la destinazione agro-pastorale del
complesso, conservatosi fino ai nostri giorni, che sfruttava i terreni
occidentali dei monti Pizii. Ma tale insediamento agro-pastorale costituisce
probabilmente l'eredità di una delle antiche ville di Palena (Castello
Alberico). Un altro esempio di complesso agro-pastorale è quello di S. Liborio,
in territorio di Scanno (Aq), appartenuto fino ad alcuni decenni orsono ad
un’altra nota famiglia di armentari: i Di Rienzo.
Fino alla fine del 1700 il paesaggio della
montagna appenninica aveva mutato il suo aspetto paesaggistico soprattutto a
causa dei disboscamenti fatti per favorire la pastorizia. Ma per quanto
riguarda la modifica dei pendii e la costruzione di ricoveri e recinti si era
fatto ben poco: la pastorizia si serviva in prevalenza di modeste strutture in
pietra a secco abbinate, nella maggior parte dei casi, a strutture lignee per
la copertura delle capanne e la chiusura dei recinti; l’agricoltura aveva occupato
solo i suoli più fertili in fondo alle vallette e alle doline con modesti
esempi di terrazzamento e con minimi spietramenti. In ogni caso, ovunque fosse
presente una economia mista di pastorizia e agricoltura, il paesaggio era
sostanzialmente quello dei campi aperti al fine di conciliare queste due forme
di utilizzo del territorio e di permettere la concimazione dei campi attraverso
il passaggio e la stabbiatura delle greggi. In diverse zone della montagna
aquilana “i campi aperti” si sono
conservati fino ai nostri giorni.
|
S. Stefano di Sessanio: i campi aperti |
Ma il profondo cambiamento del paesaggio montano
dell’Appennino centro-meridionale e in particolare dell’Abruzzo, ha inizio nei
primi decenni dell’Ottocento con l’eversione della feudalità. L’eversione
feudale rese disponibili vaste proprietà feudali ed ecclesiastiche e parte dei
demani comunali: i terreni vennero in parte quotizzati ed alienati ai nuovi
coloni provenienti da una pastorizia ormai in crisi e da un notevole incremento
demografico. Se andiamo ad esaminare il “Catasto Provvisorio” dei paesi montani
troviamo numerosi fondi agricoli dove un tempo era bosco o pascolo.
L’occupazione delle terre demaniali iniziata con la stesura del catasto aveva
favorito la nascita di tanti piccoli edifici rurali.
Le tipologie di questi insediamenti montani nati
dalla fame di terra possiamo classificarle in tre categorie: masserie isolate,
villaggi stagionali, capanne o complessi di capanne.
|
Masseria isolata sul Piano di Baullo |
Oltre ai grandi complessi agro-pastorali citati,
nati per uno sfruttamento razionale del territorio, sorsero numerose masserie
su terreni situati al limite altimetrico delle colture o in zone
particolarmente impervie e povere, ad opera di coloni che non avevano altre
possibilità di scelta. Sulle carte topografiche tali insediamenti sono indicati
con il termine "case" o "masseria" seguito dal cognome
della famiglia proprietaria.
|
Il vallone d'Angri |
Sul Gran Sasso meridionale tale tipo di
insediamento stagionale si è spinto a quote elevate. I complessi avevano in
prevalenza funzioni pastorali ma ovunque vi fossero le condizioni adatte era
praticata anche una modesta agricoltura. Potremmo ricordare a titolo di esempio
le case Micantoni, le case d'Antoni, le case Cococcia, la masseria Matarazzi e
le casette Mortale. Il motivo della salita a queste quote è da ricercarsi nella
morfologia del terreno; vallette riparate offrivano la possibilità di integrare
con modeste produzioni agricole i profitti della pastorizia stanziale.
Le "stinzie" del Vallone d'Angri, in
Comune di Farindola (Pe), erano abitazioni stagionali disseminate nella valle
ognuna sul proprio fondo agricolo.
Le numerose masserie di Pescocostanzo, tutte
situate nel Primo Campo a quote intorno ai 1300 metri, sono ancora oggi
abitate. Molto probabilmente esse nacquero come insediamenti stagionali e solo
in seguito, grazie alla migliorata viabilità invernale, hanno assunto carattere
di abitazioni permanenti.
Ormai abbandonate da tempo sono invece le masserie
di Ateleta (Aq), alcune delle quali si trovano ad oltre 1400 metri di quota sul
versante meridionale del monte Secine (Masserie Maccaroni, Carmenicola,
Sciulli…).
In alcuni casi l'accentramento di più rustici,
nati spesso in modo spontaneo, tendono a formare dei veri e propri villaggi
stagionali. Gli esempi più noti sono quelli che troviamo sulla montagna che
domina la valle del fiume Aterno: le pagliare di Tione, Fontecchio e Fagnano.
Fra questi centri abitati ed i rispettivi villaggi stagionali troviamo una
differenza di quota di circa 500 metri. Le scarse possibilità di pascolo nei pressi dei
paesi e la necessità di incrementare le aeree coltivabili hanno indotto gli
abitanti ad un esodo stagionale.
|
Le pagliare di Tione |
Il termine “pagliara” viene utilizzato per
indicare un rustico con funzione di stalla e fienile. Molte pagliare si trovano
ai margini dei paesi per evitare l’ingresso degli animali nei centri abitati
(Lettopalena, Rosello…) mentre altre, distanti dal centro abitato hanno assunto
anche la funzione di abitazione stagionale (Tione, Fontecchio, Fagnano, Ofena,
Gioia Vecchio, S. Pietro della Genca…).
In effetti i trasferimenti stagionali avvenivano
in molti luoghi della montagna abruzzese per coltivare le poche zone fertili,
in genere piccoli pianori e depressioni carsiche, e provvedere al sostentamento
degli animali stanziali. Buona parte del paese si trasferiva in questi villaggi
che sono spesso caratterizzati dalla presenza di una chiesa per il conforto
religioso della comunità. Nei rustici di Gioia Vecchio, nel Fucino, fino al
terremoto del 1915 saliva tutto il paese di Gioia dei Marsi tanto da
giustificare il trasferimento del Municipio, del Comando dei Carabinieri e del
parroco. (Ortolani M., "La casa rurale negli Abruzzi", Firenze 1961).
E' chiaro che il trasferimento di numerose
famiglie in queste sedi estive denota una estrema frammentarietà dei fondi
rustici. Infatti una grossa proprietà terriera determinava la nascita di una
grande masseria, come quella di Piano S. Marco di Castel del Monte o la
Castelletta di Palena, mentre appezzamenti di media grandezza richiedevano la
dislocazione dei rustici sui rispettivi fondi agricoli (Stinzie del Vallone
d'Angri, Masserie di Iovana (Scanno), Masserie di Ateleta, Casini della Valle
di Vusci (Carapelle e Castelvecchio Calvisio)).
Anche il villaggio stagionale di S. Pietro della
Genca, appartenente agli abitanti di Camarda (Aq), poteva contare sui terreni
coltivabili della sinistra idrografica della Valle del Vasto e sui pascoli del
versante meridionale del Gran Sasso.
|
S. Pietro della Genca |
Le costruzioni presenti nei villaggi stagionali
rispecchiano le caratteristiche di altri edifici rustici più o meno isolati: la
stalla a piano terra ed il fienile al piano superiore; la maggior parte degli
edifici si trova su pendio, con l'ingresso alla stalla verso valle e quello al
fienile sul lato a monte. In genere l'elemento accentratore di questi rustici
era un punto d'acqua: pozzo (Tione), laghetto (Fontecchio), sorgente (S. Pietro
della Genca).
La migrazione più numerosa, quella che ha
modificato il paesaggio delle montagne, è stata sicuramente quella di quei
coloni che si sono adattati a coltivare minuscoli fazzoletti di terra e a
portare al pascolo pochi capi di bestiame nelle zone più pietrose. In questo
paesaggio di pietra ancor oggi vediamo, dopo decenni di abbandono, i segni
inconfondibili di quei vecchi coltivi: muri di contenimento che a volte
delimitano fazzoletti di terra, grandi mucchi di spietramento e capanne,
centinaia di capanne in pietra che per tanti mesi costituirono l'unico ricovero
del contadino. (Si veda la pagina: La pietra a secco)
|
Capanne su campi terrazzati |
In molte zone della montagna aquilana i ricoveri furono realizzati in
modo diverso: scavando i pendii. Grotte artificiali divennero rifugio e base di
appoggio per uomini ed animali. L’esempio più evidente lo troviamo a Piano Le
Locce e nelle valli limitrofe, dove ancor oggi si coltivano lenticchie e alcune
greggi pascolano sui pendii che circondano il piano. Ai piccoli ingressi
rinforzati con muri a secco seguono uno stretto corridoio e un vasto ambiente,
che si spinge profondamente nel pendio, adatto ad accogliere uomini ed animali.
|
Grotte di Piano Le Locce |
Nessun commento:
Posta un commento